Stefano Gregoretti: “Cercate il vostro Artico, vivete la vita fino in fondo”
Artic Extreme, in spedizione con Stefano Gregoretti
“Quando l’alternativa non esiste puoi solo attingere al tuo 110%. E’ lì che oltrepassiamo il nostro limite”.
E Stefano Gregoretti quel limite lo ha guardato in faccia, da molto, molto vicino.
Nel mese di febbraio, in occasione del 150esimo anniversario del Canada, lui e Ray Zahab hanno affrontato una spedizione a dir poco ambiziosa: 1000 km in autosufficienza, in tre aree diverse del Nord del Canada.
Al suo fianco, indispensabili, gli strumenti Garmin che gli abbiamo messo a disposizione e che si sono rivelati fondamentali.Dopo un mese hanno fatto ritorno a casa, ma quello che è successo in quei giorni li ha segnati per sempre. E abbiamo chiesto proprio a lui di raccontarcelo.
Stefano, come è nata l’idea di questa spedizione?
Dalla voglia di attraversare tre regioni dell’Artico in tre modi differenti: con i telemark sci, con pelli e slitta e con la fat bike. Cambia il mezzo, cambiano gli aspetti logistici e le abilità che devi attivare, ma il motore è sempre la propulsione umana. E’ servita una preparazione particolare per poter affrontare non solo lo difficoltà negli spostamenti ma anche i rischi di una spedizione fuori dall’ordinario, tra orsi polari e condizioni meteo estreme.
Cosa prevedeva il programma?
L’idea era percorrere la prima tappa, di running e trekking, attraverso il Parco Nazionale a Nord di Labrador e Quebec, tra le Torngat Mountains, con una slitta individuale al seguito per trasportare il necessario alla sopravvivenza, dalla tenda, al cibo fino agli indispensabili strumenti di comunicazione via satellite. Le Torngats sono una delle più estreme e remote regioni artiche, con venti forti, temperature estreme e neve accecante.
Seconda tappa nel Parco Nazionale dell’Isola di Baffin, il territorio più settentrionale e vasto del Canada, il Nunavut, utilizzando gli sci da cross-country per affrontare il ghiacciaio del Penny Ice Cap, sempre in autosufficienza.
Ultima tappa nei territori del Nord Ovest, in semiautosufficienza, ovvero con una macchina pronta a soccorrerci in caso di emergenza, utilizzando due fat bike con pneumatici chiodati per arrivare fino all’Oceano Artico, lungo la rinomata e gelida Arctic Ice Road. La tappa più dura di tutto il viaggio.
Non tutto, però, è andato nel migliore dei modi.
No, quando affronti sfide come queste non puoi pensare che fili sempre tutto liscio.
Purtroppo abbiamo dovuto interrompere bruscamente la prima parte della spedizione a causa di un “piccolo” imprevisto. Era nevicato molto in quei giorni. Io e Ray siamo arrivati in un canyon. Lui era davanti a me quando, all’improvviso, il ghiaccio su cui ci stavamo muovendo non ha retto. Ray è caduto in acqua, fino al petto. A 40 gradi sotto zero, con un vento gelido e la corrente che stava per trascinarlo via, ho davvero temuto il peggio. Ma è proprio in quei momenti che dai il 110%, che sfrutti tutte le risorse che hai e anche quelle che non sapevi di avere.
Per fortuna lui è molto agile e con il mio aiuto è riuscito a trascinarsi fuori. Questo però ha voluto dire non solo rinunciare a completare la prima parte della spedizione, ma anche ritrovarsi per tre giorni nella tempesta, con venti a 150km/h e Ray che già era in ipotermia.
Come siete riusciti a, è il caso di dirlo, sopravvivere?
Lui è stato molto bravo: appena uscito dall’acqua si è rotolato nella neve fresca per farle assorbire quanta più umidità possibile per poi cambiarsi con abiti asciutti. Per farlo scaldare, però, non restava altro da fare che rimettersi in marcia. Era questione di sopravvivenza. Abbiamo aperto un’altra via nella neve fresca, su una salita ripidissima, poi ripercorsa altre due volte tirando e spingendo le slitte. Prima del buio abbiamo montato una piccola tenda. Gli scarponi di Ray nel frattempo erano diventati due pezzi di gesso e abbiamo dovuto prenderli a mazzate con la piccozza per permettergli di sfilare i piedi, ovviamente assiderati. Sarebbe stato molto difficile proseguire, anche perché l’ipotermia di Ray gli aveva bloccato lo stomaco e non riusciva a mangiare. Così abbiamo deciso di fermarci e mandare un messaggio di soccorso agli amici Inuit, che il giorno dopo sono venuti a soccorrerci.
Dopo questa brutta avventura, cosa vi ha spinto a proseguire?
E’ un po’ quello che succede a un alpinista quando durante una scalata incontra una difficoltà, un imprevisto, qualcosa che mette a rischio la sua vita. Una parte di lui è tentata di tornare indietro al campo base, ma un’altra spinge per raggiungere la vetta.
Dopo un dramma come quello che abbiamo vissuto io e Ray, non era semplice ripartire, trovare la motivazione per mettersi di nuovo in gioco, ma lo fai, perché la voglia di arrivare in vetta è più forte di tutto. Pensi che è proprio lì che vorresti essere, pensi a quanto l’hai immaginato e progettato per mesi; così scendi dalla motoslitta dopo sei ore interminabili di viaggio e sei pronto a ricominciare.
Del momento in cui Ray è caduto nell’acqua gelida a 40 sotto zero, ricorderò sempre i suoi occhi terrorizzati, mentre mi chiamava e poi appena uscito le migliori risate della vita! “Fuck! I’m still alive! I need a coffee!”. Ecco, è tutto qui.
Come è proseguita la vostra spedizione?
Una volta che i soccorsi se ne sono andati, sapevamo di dover affrontare di nuovo tutto da soli. Non c’erano indicazioni, rifugi, sentieri, solo una manciata di waypoint salvati sul Garmin per orientarsi. Il resto era tutta affidato alla fantasia e al piacere di disegnare la propria strada.
Gli orsi polari erano il pericolo più grosso, tanto da non farci dormire sonno tranquilli la notte, ma non erano l’unico. Per fare 20 km ci sono volute più di 10 ore. Del resto con -35° C e vento contro a 100 km/h, la temperatura percepita è di -61° C e di notte i venti arrivano a oltre 200km/h, in tutte le direzioni. A differenza di una gara, anche estrema, lì sono la neve, le salite, il fondo e il freddo, uniti ai venti artici, a decidere cosa puoi o non puoi fare. E questo è un bene. Siamo abituati ad avere sempre tutto sotto controllo, mentre in quella situazione sono gli elementi che decidono per te. E prima accetti questa cosa, prima sei sereno.
Per l’ultima tappa ci siamo spostati verso i territori del Nord Ovest: in bici sulla McKenzey Valley, la mitica ICE ROAD. Dopo aver pedalato per 200 km in due giorni, su 500 totali, come da programma il nostro viaggio si è concluso a Fort Good Hope, non senza un sottile velo di malinconia guardando indietro la strada fatta e l’esperienza vissuta.
E poi, il ritorno a casa.
Tornare a casa dopo un’esperienza del genere non è semplice. Le emozioni e le sensazioni che ti restano addosso sono talmente intense da impedirti quasi di dormire. Riposi due o tre ore, dopodiché il tuo corpo si sveglia, perché ti si agita qualcosa dentro. Ti sembra che sia passato troppo tempo, di averne ancora troppo poco a disposizione e non lo vuoi sprecare. Torna la voglia di rivivere le stesse sensazioni, la testa non sta ferma e ti ritrovi a infilare le scarpe per uscire a correre alle 3 del mattino, l’unico modo per azzerare i pensieri.
Così come nell’Artico. Lì capisci cosa vuol dire il silenzio della mente, come da nessun’altra parte, neanche in un deserto caldo, perché il freddo è talmente brutale che il cervello non trova spazio per nessun pensiero, né bello né brutto. Vuoto assoluto. Spariscono i pin dei cellulari, il numero di carta di credito; ricordare il proprio numero di telefono diventa uno sforzo. Pensi a volti conosciuti ma focalizzarli diventa quasi impossibile; le immagini sono confuse, non ricordi i lineamenti, il suono della loro voce. Nulla. Il vento gelido porta via tutto. Una sensazione devastante e ricaricante insieme.
La paura è il pensiero dominante, quando senti il ghiaccio che si sta per rompere sotto di te e sai di essere a centinaia di km dall’abitato più vicino, sai che non ti puoi fermare. Hai paura di sbagliare rotta nella tempesta, di perderti, di cadere, di morire…
Ti chiedi mille volte perché sei lì. Poi capisci. L’Artico ti insegna a tenere duro anche quando non vuoi, perché non hai alternative. Una lezione che serve sempre nella vita.
Tante volte mi chiedono, e me lo chiedevo anche io, perché una persona deve fare questo. La risposta è molto semplice. Lo facciamo perché possiamo. I pesci nuotano perché possono, le scimmie arrampicano perché possono, l’uomo ha sete di queste cose qui, perché la Natura gli ha dato gli strumenti per poterlo fare!
Nell’Artico l’uomo trova veramente il modo di spingere il proprio 100%.
Nella vita non è importante raggiungere il traguardo ma vivere ogni giorno come se fosse l’unico che conta. Se si ha paura di perdere, non si avrà mai il coraggio di uscire e mettersi alla prova per ottenere qualcosa.
La vita ha 30.000 giorni, viveteli fino in fondo, cercate il vostro Artico.