La metafora dei cinque secondi di Alex Zanardi
La vittoria lungo il cammino alimenta la nostra passione, ma quella che si ottiene alla fine del percorso che avevi programmato di compiere, il conseguimento del grande risultato che sognavi, beh questo può invece anche minarla.
Io, fortunatamente, questa situazione l’ho dovuta affrontare. Da Bi-Campione Olimpico mi sono ritrovato a dover rilanciare in una nuova stagione in cui poteva essere difficile trovare gli stimoli giusti.
Tuttavia non è andata così, anzi, francamente non ho nemmeno rischiato che accadesse…
Sarà che al di là di quel che c’è scritto all’anagrafe sono ancora “giovane” come atleta, sarà che mi sono scoperto molto “tagliato” per questo gioco; ma in ogni caso io amo andare in bicicletta, o handbike se preferite e non ci sono salito sopra al sol scopo di arrivare a Londra per provare a vincere.
Ho vinto perché volevo andare in bicicletta, punto.
La vera gioia e non certo il prezzo da pagare è stata allenarmi, sudare, soffrire e per questo a Londra ci sono arrivato; per questo a Londra ho anche vinto. Per la stessa ragione non è stato difficile rilanciare; in questa nuova stagione, provare a confermarmi ai Campionati del Mondo era in fondo un’ottima scusa per continuare a fare quel che amo, andare in bicicletta.
Eppure, c’è sempre qualcosa che può cambiare.
Al Mondiale di Baie-Comeau in Canada ci sono arrivato come l’indiscusso favorito dopo aver vinto 5 delle 6 gare di Coppa del Mondo, l’ultima delle quali poi, persa dopo una volata in cui, con un tempismo un po’ da sbruffone, sono partito a 300m dal traguardo trascinandomi tutti dietro e venendo beffato solo all’ultimo metro dal sudafricano Van Dyk…. Ecco, sapevo di essere a posto, lo sapevano tutti. Alla vigilia i miei compagni di nazionale addirittura mi dicevano: “Oh, poi me la fai provare la maglia di Campione del Mondo?!?”
Si scherza, però sembrava davvero già fatta e invece…. E invece non è stata affatto una formalità. A Londra tutti mi tenevano d’occhio, ma sono comunque riuscito a batterli grazie anche all’effetto sorpresa. In Canada, hanno tutti cercato di restituirmi il favore. Il primo è stato Ernst Van Dyk. Sudafricano, non più giovanissimo, quasi 40 anni, ma comunque un ragazzino rispetto a me. Dotato di un fisico statuario forgiato con anni di gare nello sport paralimpico che gli sono valse innumerevoli vittorie e riconoscimenti, Van Dyk è potentissimo, un gigante e forse proprio per questo è sempre stato più un velocista che un cronoman.
Eppure è stato proprio nella crono che mi ha sferrato il primo, inaspettato attacco. E che avesse preparato con convinzione fisico e tattica, lo si è capito non solo dalla prestazione di cui s’è reso protagonista, ma anche dal fatto che solo una settimana prima, nella gara CDM a Crono che avevamo disputato, partendo un minuto prima di me si era fatto prendere, per mostrarsi innocuo e anche per studiarmi, visto che poi ha fatto il secondo giro di gara praticamente al mio fianco…
Il tracciato di Baie-Comeau era molto duro; partenza in salita e poi due giri di un saliscendi da 8,6 km che non concedeva margine d’errore.
Dopo aver scaricato i dati dal mio Garmin, ho realizzato di aver fatto la miglior gara di sempre da quando pratico questo sport, sia come valori di potenza, che come approccio tattico alla gara e gestione delle risorse.
Ho vinto, Campione del Mondo, ma Ernst era inaspettatamente lì, solo 15’’ dietro.
Ecco, al di là dell’orgoglio per il risultato, forte in me è stata la soddisfazione per aver dato tutto in una gara in cui sembrava che sarebbe bastato molto meno per aver ragione degli avversari.
Mio padre mi diceva sempre: “tu Sandrino dai il massimo, se le prendi, buonanotte! Se le dai, meglio! Se domini non provare imbarazzo perché non è un problema tuo, anzi, quando dai tutto, in fondo anche il miglior modo di rispettare gli avversari perché mostri loro dove si può arrivare…”
Beh io il massimo l’ho dato e in cambio ne ho tratto una piccola lezione di vita; a Londra avevo mostrato ai miei avversari dov’era l’asticella, qui non si sono fatti sorprendere, eppure grazie alla voglia di migliorare a prescindere da quello che stavano facendo gli altri lungo il percorso, ho sfidato me stesso alla ricerca della migliore prestazione di sempre ed è solo grazie a questo che sono riuscito a batterli ancora.
Campione del Mondo, certo, bellissimo. Però due giorni dopo ci sarebbe stato un altro titolo in palio e quando sai di avere le carte giuste per la gara che deve venire, quella che hai appena fatto è già una foto da appendere al muro… Ci sarà tempo per guardarla.
E’ per questo che tecnicamente, più che la voglia di festeggiare, il mio pensiero era rivolto alla logica conclusione appena tratta al termine di quella gara: Lui è un velocista, “Il Velocista” della nostra categoria. Dopo quasi mezzora di gara l’ho battuto per soli 15’’ quando a Londra gli avevo dato quasi due minuti.
Eppure, con Lui ero finito a giocarmi la gara due giorni dopo nella corsa in linea. E a Londra era stato lui sbagliare sottovalutandomi ed offrendomi la scia in una lunghissima volata che, col senno del poi, si sarebbe giocato certamente in un modo diverso.
A tutto questo si aggiungeva un’altra preoccupazione: suonerà immodesto dichiararlo, ma so di essere molto dotato anche come velocista. Questo se il tutto si gioca su tempi ragionevolmente brevi, tipo dai 20 ai 25’’ max. Ancor meglio poi se posso lanciare la mia volata da bassa velocità perché il mio rapporto peso potenza mi favorisce. Ma su sprint che diventano più che altro lunghe progressioni, beh in quel campo è più forte Van Dyk… Volendolo descrivere, questo era l’ultimo tratto di gara che si sarebbe trasformato nel nostro “campo di battaglia”: 1 km pianeggiante, 150m ca. di discesa al 5%, poi 400m ca in falsopiano ancora leggermente a scendere, una severa rampa di 100m abbondanti a salire con una pendenza quasi del 10% e poi gli ultimi 300m di un falsopiano che ci avrebbe visto arrampicarci sinuosamente verso il traguardo.
Da quando ero arrivato a Baie-Comeau e avevo avuto la conferma di quanto intuito guardando l’altimetria del percorso, il mio pensiero era stato quasi unicamente questo: chi si sarebbe preso il rischio di arrivare a braccia ferme su quella rampa col rischio di piantarsi e farsi staccare da qualche pazzo che avesse deciso di anticipare?
Per non farsi anticipare, tutti avrebbero anticipato era la risposta. L’unica che risuonava nella mia mente e che mi toglieva il sonno. Sì perché, a conti fatti, in quel modo ci saremmo giocati la gara con una volata da almeno 35’’, troppi per il sottoscritto…
La gara è stata infernale; tutti contro tutti ma soprattutto contro di me!
Comprensibile, lusinghiero per certi aspetti, tuttavia già alla partenza ho avuto la prima sorpresa: i tre atleti olandesi, convinti delle chance del loro Jetze Plat, che per risparmiarsi aveva saltato la crono, hanno mostrato subito la loro tattica: uccidermi!
Non nel senso letterale del termine eh, però dopo un evidente riscaldamento preposto allo scopo, hanno tagliato subito il gruppo con un’accelerazione folle sui 3km del primo tratto in salita.
Controllando il mio Garmin nel dopo gara, ho poi scoperto che abbiamo affrontato quel tratto che ha una pendenza media quasi del 3%, ad una velocità prossima ai 40kmh, infiammando dal primo metro la gara e i miei polmoni.
Tim De Vries, autore dell’iniziativa e terzo nella crono di due giorni prima, ha poi salutato anzitempo la compagnia visto che già al termine di quel primo giro è saltato; però anch’io ho accusato il colpo, anzi, penso di non essermi più ripreso da quella fatica.
La gara è poi continuata in quel modo: ogni occasione per mettermi in difficoltà non è andata sprecata.
Stavo dietro mi aprivano buchi che poi dovevo richiudere, andavo avanti e su ogni salita mi scattavano da dietro. Addirittura alla zona rifornimento, come allungavo la mano per prendere la borraccia, via! Qualcuno immancabilmente partiva da dietro.
Insomma, io in bici ho provato la stanchezza, sono arrivato alla sofferenza, ma sabato 31 agosto, all’ultimo giro del mio Mondiale in Canada, nel momento in cui la gara s’è leggermente “ibernata” in attesa dell’imminente volata…. Ecco, ciò che ho provato può riassumersi in una parola sola: Tristezza!
Ero triste, talmente esausto da provare tristezza e se avessi seguito il mio istinto mi sarei semplicemente fermato per piangere appoggiato alla mia bici.
Sfinito, triste come detto e pieno di crampi, tanto che il braccio destro, ogni volta che tiravo, faceva ciò che voleva, chiudendomi spesso la forcella e obbligandomi a correzioni di traiettoria che riuscivo a produrre solo grazie all’altro braccio.
In quel momento l’unica cosa che mi ha aiutato è stata la metafora dei “Cinque secondi”.
Quante volte m’è successo di voler mollare, sfinito, pensando di essere molto più stanco degli avversari contro i quali sto correndo; poi ti dici, “ancora cinque secondi!”
Chiudi gli occhi per lo sforzo, quasi ti fai del male per continuare a spingere e poi cavolo… Non sempre eh, ma è successo che riaprendoli li ho visti indietro, avevano mollato loro!
Ecco, di quei “cinque secondi” più ne vivi e più ne cerchi.
Non è facile trovarli, ma ce ne sono ovunque, nello sport, nel lavoro, negli affetti, in una parola: nella vita.
Così è stato, per quanto poco convinto, anzi, certo che il mio sforzo avrebbe potuto fruttarmi al massimo il bronzo, mi sono detto: “Sei qui, provaci!”
Due km dopo ho messo in atto il mio piano diabolico, quello che avevo elaborato dopo tanto ragionare: “se non posso obbligare gli altri ad accorciare la volata, posso provare a fare allungare la loro…”
Prima della discesa ho preso il rischio: sono rimasto dietro, ho aperto un buco di una dozzina di metri e quando loro sono partiti con le classiche dieci sbracciate per lanciare il mezzo prima di mettersi in posizione (che da noi fa una differenza così grande da non giustificare il continuare a spingere se con un po’ di discesa puoi tenere una velocità sopra i 50kmh…), a quel punto sono partito a mia volta, ma con più decisione e facendone 15 di sbracciate per recuperare più velocità.
Sul piano, in scia, li ho raggiunti e, sempre a braccia ferme, ho passato il primo, il secondo, il terzo…
Mentre stavo ormai arrivando addosso a Ernst Van Dyk, proprio perché m’ha visto arrivare lanciato, temendo un mio anticipo è partito.
A quella velocità, come ti alzi per spingere perdi istantaneamente quasi 5kmh e poi, nonostante lo sforzo bestiale, non è che vai a benzina e riguadagnare velocità a 50 e fischia è dura.
Quello che è accaduto è esattamente quello che speravo di fare accadere: siamo arrivati all’attacco della rampa ormai incollati uno dietro l’altro, solo che io avevo appena iniziato ad accarezzare le leve, il mio forte avversario mi ci aveva portato producendo uno sforzo che durava ormai da 6/7 secondi.
Abbiamo aggredito la salita come due razzi, staccando subito tutti, lui davanti e io dietro che tenevo. Poi, quando a metà della rampa l’ho sentito gemere per la fatica ho attaccato davvero…
Due, tre, cinque sbracciate e al suo fianco mi ci ha visto per poco, quel poco che ha potuto il suo sforzo estremo in cui ha cambiato suono emettendo un grido inumano e anche perché a quel punto, nonostante il dolore, i crampi al braccio pazzeschi, mi sono detto:
“non è fra un attimo, un minuto o un giorno, Zanna, è adesso che devi dar tutto!”…
E ho continuato, sono saltato avanti scollinando da quella rampa a 36,4 kmh (!) e poi ancora, giù due denti, altri due e anche se le mie braccia friggevano sapevo d’aver vinto; perché quando hai capito il senso della metafora dei “cinque secondi”, la cerchi in ogni occasione e se una volta di più riaprendo gli occhi il mondo che ti circondava è cambiato così tanto, porca miseria quello che ti assale è una voglia che nessuna stanchezza, nessun dolore può fermare!
Sono convinto che se Lui avesse trovato “l’introvabile” per rimontarmi mi sarei “ferito” pur di spingere ancora…
…Per mia fortuna “è bastato semplicemente il massimo”.
Il mio “Kers” stava finendo, ma, cavoli; lui era partito ben prima di me e anche il suo lampeggiava rosso da un po’!
Il traguardo è arrivato, dolcissimo, l’ennesima lezione di vita: si può vincere anche senza essere i più forti, preparandosi al meglio, studiando il “progetto”, cercando di capire i punti di forza del nostri avversari e poi sfruttando al meglio le carte che abbiamo. Facendo quel che si può, solo e tutto quel che si può!
Può suonare facile dirlo da Bi-Campione del Mondo: ma quando hai dato davvero tutto è poi relativamente importante vincere o perdere.
Va accettata l’idea che prima o poi arriverà qualcuno più forte di te che sarà in grado di starti davanti indipendentemente dalla misura del tuo impegno.
Ma è questo che conta, sapere di avercela messa tutta.
Si perché accade eh, non si può essere solo davanti, sempre….
Però, visto che per questa volta non è andata così…
Oh, ragazzi, che dire: Fatemela godere!!!